La cosa che veramente la gente vuole sapere da me è, comprensibilmente, quali vini comprare.
Comprensibilmente non solo perché dal 2006 a oggi ho assaggiato una media di 10.000 vini l’anno per cui probabilmente il mio è un consiglio circostanziato, ma anche perché all’atto pratico è la cosa più interessante da sapere per chiunque acquisti vino a qualsiasi titolo.
Non senza una certa riluttanza, quindi, ho deciso di ordinare e organizzare i migliori fra i miei assaggi italiani dell’anno, traendone una classifica che verrà pubblicata a puntate tra oggi e (speriamo) il 6 gennaio.
LA NECESSARIA NOTA METODOLOGICA
Non più di un vino per azienda; solo vini assaggiati in bottiglia per la prima volta durante il 2024; solo vini usciti durante il 2024; solo vini di cui non sia uscita un’annata successiva durante il 2024. I simboli dell’Euro (da uno a cinque) danno un’idea della fascia di prezzo.
RISPOSTE ANTICIPATE ALLE DOMANDE CHE MI FARETE
MA COME, QUESTO VINO NON C’È!
I casi possibili sono:
- Non l’ho reputato più meritevole di menzione rispetto a quelli pubblicati;
- Anche se tecnicamente sarebbe stato da pubblicare, ho preferito dare risalto a un altro vino della stessa azienda particolarmente meritevole quest’anno;
- Non l’ho assaggiato in bottiglia nel 2024;
- L’avevo già assaggiato in bottiglia prima del 2024;
- È uscito in commercio prima del 2024;
- Nel 2024 è uscita in commercio un’annata successiva;
- Ho erroneamente ritenuto vera una delle due affermazioni precedenti, in realtà falsa;
- Non l’ho proprio assaggiato;
- Non solo non l’ho reputato più meritevole di menzione rispetto a quelli pubblicati, ma mi ha fatto proprio cagare.
MA NON CI SONO UN PO’ TROPPI VINI DI QUELLA REGIONE?
Che Piemonte e Toscana finiscano a fare la parte del leone, soprattutto se tagliamo la classifica al miglior 1% dei vini degustati, è pressoché inevitabile. Inoltre, siamo nella congiuntura in cui coesistono gli ultimi Barolo 2019, i Barbaresco 2021 e non pochi Brunello 2019.
MA COME, NON C’È NEANCHE UN VINO DI QUELLA REGIONE! TI STANNO SUL CAZZO / HAI DEI PROBLEMI CON IL CONSORZIO?
Alcuni Consorzi hanno un problema con me, ma non è quello il punto e non influisce sulle mie scelte. Cinquanta vini su svariate migliaia è la punta della punta della piramide, ci sono interi movimenti vinicoli che stanno facendo cose straordinarie e che in questa classifica non esprimono nemmeno un vino. Spero tuttavia di poterne parlare presto in separata sede.
LA GRAFICA FA SCHIFO
Anch’io faccio schifo con la grafica, ma sai cos’è ancora peggio? L’interfaccia di Substack che non permette nemmeno di posizionare del testo a lato di un’immagine. Ho dovuto ricorrere a dei barbari barbatrucchi per dare alla cosa una parvenza di leggibilità.
POSSO MANDARTI DEI CAMPIONI DI VINI DELLA MIA AZIENDA PER LA CLASSIFICA DELL’ANNO PROSSIMO?
No.
Già così affogo nel vino, inoltre non ho creato né questa classifica né tantomeno questa newsletter per scroccare bottiglie in giro.
E ora, bando alle ciance e iniziamo. Sarò breve, e non didascalico.
Iniziamo con un grande classico. La Sardegna è la regione maggiormente in crescita in questa classifica, essenzialmente per merito dei vignaioli di Mamoiada, ma questa new wave si inserisce su un substrato in cui le antiche eccellenze continuano a volare alte. Ho avuto la fortuna di conoscere Giovanni Battista Columbu, un uomo fondamentale per la storia del vino italiano e per la storia della Sardegna tutta, quando ero un giovane di belle speranze, e lui un patriarca celebrato da più di trent’anni. Oggi, la famiglia prosegue nel solco del fondatore in modo encomiabile, aggiungendo alla linea aziendale vini più accessibili e commercializzabili ma non spostandosi di un millimetro dal rigore e dalla tradizione della Malvasia di Bosa, uno dei più grandi vini ossidativi del mondo. Seppur a uno stadio embrionale, questa Riserva 2017 mostra tutti i crismi di una grande versione, che unisce rara potenza a una complessità che è già futile descrivere con parole. Che siano o non siano di moda le vinificazioni con la flor in botti scolme, questo rimane un monumento, e l’ultima versione in commercio certamente non delude.
Non manca in questa classifica quello che ritengo -e non è un’opinione minoritaria- il più grande vino bianco italiano, nonché il mio personale vino feticcio, e proprio per questo motivo forse pecco dell’errore di valutarlo con il freno tirato per controbilanciare eventuali bias.
Questa 2020 si prospetta come una versione molto interessante, quasi d’altri tempi; agile e leggera, agrumata e sulla frutta bianca con già delle belle note erbacee. Ma la cosa più interessante, appunto, è che ha alcuni caratteri di quei Trebbiano “di montagna” degli anni Ottanta e indietro. Non è certo un mostro di struttura, ma con questa acidità sarà in grado di andare lontanissimo, e sono molto curioso di seguirne l’evoluzione.
MENZIONE D’ONORE RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO
Se è vero che la Basilicata continua a registrare una cronica mancanza di nomi nuovi, è altrettanto vero che, con grande serietà, l’azienda di riferimento della zona del Vulture continua a dare vita a uscite convincenti. Il vino di punta aziendale, da vigne centenarie, esprime il territorio in maniera centrata, e ha tutto quello che ci si aspetta: una ricchezza ai confini del prodigo, un’estrazione importante ma ben sostenuta, tannini importanti ma di eccellente fattura, un bel contrappunto minerale.
Una sorpresa. Per lunghi anni mi sono lamentato della scarsa messa a fuoco di un pur vivace sottobosco di aziende più o meno nuove in Abruzzo, ma nel post-Covid ho visto una crescita qualitativa proveniente da più parti e anche una maggior attenzione allo sviluppo della proposta enoica da parte degli operatori locali.
Questo è un Montepulciano “totalmente montepulcianizzato” (qualcuno che mi legge mi capirà), un parcellare vinificato con macerazioni da Barolo tradizionalista e affinato alternando cemento e barrique di modo che la seconda non arrivi a trasfigurarlo. Guardo sempre con un po’ di sospetto vini di questo tipo proposti a tutto questo tempo della vendemmia, al punto di stupirmi nel non trovare alcun segno di squilibrio, cedimento o ossidazione: l’integrità è magistrale, il frutto croccante, l’intensità quella che si conviene a un vino importante di questa denominazione. Un vino totalmente classico e stilisticamente impeccabile, e aggiungerei impermeabile alle mode.
Quindici o vent’anni fa Verduno era ai margini della catena alimentare dei comuni del Barolo, oggi è stato riscoperto e riportato al suo posto fondamentalmente grazie a questo cru, chiaramente il più nobile e meglio posizionato del comune.
Diego Morra è un dark horse della zona, un nome che continua a rimanere sotto i radar della speculazione nonostante la qualità elevata e in crescita dei suoi vini. Il suo Monvigliero, figlio di una macerazione di 35 giorni e affinato in botte da 25 Hl, è sempre un vino classico, rigoroso, serio che esprime in modo impeccabile l’essenza del cru.
Questo è il primo Barolo della “strana” 2020 che troviamo in classifica, e non sarà l’ultimo. È un’annata su cui ho scritto un papiro, non classica e importante come la 2021, la 2019 o la 2016, ma nemmeno un’annata calda deteriore come la 2017 o la 2011. Sono vini molto pronti ma non seduti né surmaturi, da bere più giovani di come siamo abituati a fare col Barolo ma senza troppa fretta visti i pH eccellenti.
Monvigliero 2020 traduce nei fatti quello che dico: è un vino di precisione e di finezza, al netto dei parametri quantitativi da annata generosa e di come “spari” ciliegione mature e balsamicità. Possono leggibilità e vigore coniugarsi in un Barolo, che pur essendo ovviamente in divenire risulta comprensibile senza dover compiere sforzi di estrapolazione? Pare proprio di sì.
Non più tardi di un paio di giorni fa discutevo con un vecchio amico e grande conoscitore del vino europeo sullo stato attuale della Valpolicella. La sua era la voce del disappunto, di quel “Quintarelli-poi-il-nulla” che in molti circoli di avvertiti si è sentita per diversi anni (e c’è stato un tempo in cui anch’io ho attraversato quella fase). Al contrario, la mia posizione era ed è che, dopo un periodo di assestamento necessario per assorbire i cambiamenti climatici e quelli del mercato, la Valpolicella stia attraversando un momento di grande salute, in cui sono stati fatti i dovuti assestamenti sulla gestione della vigna, dell’appassimento e degli affinamenti, puntando più sul territorio e meno sulla tecnica, più sull’equilibrio e meno sulla mera potenza.
Tra le persone che hanno sempre mantenuto la barra dritta su tutti questi punti c’è certamente Marinella Camerani, figura fondamentale della scena nazionale, oggi giustamente in classifica con il suo Valmezzane 2017 (che esce con due asterischi in etichetta, il che mi fa immaginare che sia successo qualcosa a livello burocratico, ma chissene).
Anche in una versione più spada che fioretto come questa, piena, intensa, impetuosa e muscolare, è un vino che continua a non perdere l’equilibrio, ad essere centrato nella sua complessità e indiscutibilmente piacevole al netto del suo, ovviamente, non poter essere un vino da tutti i giorni e da tutti gli abbinamenti. Se è vero che i rossi di grande concentrazione hanno ridotto le loro occasioni di apertura alle feste da santificare, è anche vero che stilisticamente qui abbiamo un campione che non potrà lasciarvi a piedi, e che potrebbe finire per essere apprezzato anche da chi ha pregiudizi verso la tipologia.
Altra grossa sorpresa da un produttore outsider. Si tratta di nebbiolo di Lessona che ha passato cinque anni in botte grande e altrettanti in bottiglia prima di essere messo in commercio.
Sappiamo bene che il tempo è galantuomo per i nebbioli del nord, ma è anche vero che quando incontro il risultato di questi lunghissimi affinamenti mi muovo sempre con circospezione.
Tuttavia, in questo caso abbiamo davanti un vino splendido. Il frutto è disteso, ma perfettamente integro; la complessità è smisurata come ci attenderemmo, prendendo tutta la tavolozza possibile del nebbiolo maturo; il sorso rimane fresco, il tannino è risolto. Un vino pronto da bere in cui, contro le mie previsioni, non si è calcata troppo la mano, una bellissima espressione di una zona dove il nebbiolo continua ad essere vibrante e luminoso.
Sono ormai molti anni che i Campi Flegrei esprimono eccellenze assolute sia con la falanghina, sia con il piedirosso, due vitigni figli di un dio minore. La prima lotta perennemente contro lo svilimento industriale del “fritturina-falanghina” da altoborghese romano al mare, il secondo contro un pregiudizio che non lo vorrebbe essere granché date le umili origini, essendo tradizionalmente usato per alleggerire l’aglianico o come base di vini frizzanti quali il Gragnano e il Lettere, che ai tempi di Mario Soldati venivano spillati dalle botti in quantità generosissime come perfetti vini da pizza.
Oggi le migliori espressioni di piedirosso d’annata sono vini super contemporanei, agili, snelli, freschi, da sete. Ma quel vitigno sa anche essere altro. Qui da una vigna di 150 anni (!) con affinamento in botte da 10Hl. Una complessità che sorprende, mantenendo pulizia e freschezza, succoso, profondo, lungo, fra i grandi rossi d’eleganza italiani.
MENZIONE D’ONORE RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO
Il mio innamoramento per questa azienda coincide con la prima volta in cui ho assaggiato l’annata 2012 di questo vino, appena uscita, trovandoci un paradigma di eleganza e finezza con pochi eguali in Italia. Da allora, mai sono stato deluso; mettendo a sistema dimensioni aziendali, conduzione della vigna e della cantina, pulizia e precisione dei vini e politica dei prezzi ci troviamo di fronte a un unicum nel panorama nazionale.
Ho avuto qualche imbarazzo nello scegliere quale vino mettere in classifica, perché qui avrebbero potuto indifferentemente esserci la selezione di Garganega (Traccia di Bianco) o quella del Chiaretto di Bardolino (Traccia di Rosa). Ma voglio qui tornare alle origini, a un vino che nel suo cambiare (faceva botte grande, ora solo cemento) si è mantenuto coerente con un’idea estremamente chiara e precisa.
Elegantissimo e complesso, tra frutti rossi, note erbacee e minerali, bocca succosa, ampia, fresca, di grande beva ma mai semplice. Precisione e finezza encomiabili. Non amo il dover per forza mettersi sempre a cercare la Borgogna in posti che non sono la Borgogna, ma ce n’è molta più qui che in tanti posti dove si forza la mano con il pinot nero.
MENZIONE D’ONORE RAPPORTO QUALITÀ/PREZZO
L’azienda con forse le etichette più belle d’Italia continua a mantenere uno standard di bellezza encomiabile anche con il liquido all’interno della bottiglia. Qui l’idea continua ad essere di mettersi fuori dai paletti e dai suggerimenti delle denominazioni e ragionare attorno a una vigna, un’uva, un territorio, una stagione. Singola vigna di sangiovese ad alta quota, lunghe macerazioni, un anno di legno.
È un vino indubbiamente new wave, centrato sulla pienezza, la croccantezza, la carnosità, la piacevolezza del frutto ma al tempo stesso verticale e scorrevole. Il tutto senza mai essere banale ma raccontando con l’eloquio della giusta complessità le sue origini inconfondibilmente toscane, mediterranee, bucoliche.
Mi viene da dire che fortunatamente vini come questo, e come qualcun altro di cui parlerò più su, sono ancora al riparo da quelle speculazioni che vedono protagonisti quelli che sono pressoché in tutto e per tutto i loro omologhi d’Oltralpe.
Le parti seconda, terza, quarta, quinta e le due classifiche bonus usciranno su questa newsletter quando avrò tempo.