La (mia) verità, da giovane anziano, su Sassicaia (2021 ma non solo)
In mezzo a sette post sulla Borgogna, prendiamoci un timeout per parlare di taglio bordolese
Come tutti gli addetti ai lavori sanno, i critici più importanti assaggiano e valutano i vini più rilevanti mesi prima che questi vengano messi in commercio. Saranno almeno sei mesi che c’è un notevole chiacchiericcio intorno a Sassicaia 2021, ossia l’annata che segue un’uscita 2020 che non verrà ricordata come una delle migliori.
Il motivo è presto detto: Monica Larner, ossia la voce di Robert Parker (Wine Advocate) sui vini italiani, ha assegnato il punteggio perfetto, 100 centesimi, a tale vino. È la terza volta per Sassicaia.
La prima fu con Parker in persona che si sbilanciò sulla 1985, in un periodo in cui era tendenzialmente escluso che un taglio bordolese italiano potesse competere alla pari con “the OG” ossia con i più grandi Bordeaux. Ma il più influente critico americano non ne sa meno di marketing che di vino, e conosce bene il valore di essere primus inter pares a fare un’affermazione “forte” e per qualche verso controcorrente. Parker, fino a pochi anni prima, era uno dei tanti (conosciuto più per la critica sul Rodano che su Bordeaux), ed era diventato il critico più influente al mondo dopo essersi sbilanciato per primo definendo la 1982 a Bordeaux come l’annata del secolo, mentre gli altri si interrogavano sui pregi e difetti di quei vini di estrema concentrazione. Quella presa di posizione ha cambiato per sempre non solo la carriera di Parker, ma anche l’enologia di Bordeaux, che spenderà i quattro decenni successivi cercando di replicare quel modello stilistico, e quella di tutto il resto del mondo, che spenderà buona parte dei quattro decenni successivi cercando di replicare quel modello stilistico.
Allo stesso modo, il mondo del taglio bordolese italiano ha un prima e un dopo Sassicaia 1985, anche in virtù del fatto che prima di quell’epoca l’area di elezione per i vitigni bordolesi era considerata il triveneto, non la Toscana. Un triveneto dove si tendeva a vinificare separatamente i Cabernet (Sauvignon e Franc; c’era anche non poco Carmenere, ma generalmente all’insaputa dei vignaioli) e il Merlot. Il taglio bordolese toscano c’era, ma non aveva vera rilevanza internazionale, e quello di Roma e Frosinone vantava esempi sfavillanti e non inferiori (Fiorano, Vigna del Vassallo, Torre Ercolana). Dopo quella piotta (scusate, puoi andartene da Roma ma non puoi allontanare Roma da te), Sassicaia è stato l’eterno e imperituro portabandiera del taglio bordolese in Italia, e come la Settimana Enigmistica ha innescato un frenetico meccanismo di imitazione.
Il secondo 100RP fu con Sassicaia 2016, ed è stata Monica Larner, investita nel 2013 dello scomodo compito di rimpiazzare Antonio Galloni, ad assegnarlo. Anche qui c’è una lezione di marketing: come accade nelle migliori aziende, prima o poi i migliori collaboratori, come Galloni, smettono di essere vassalli e decidono di fondare il loro regno personale. Oggi Galloni assegna i suoi punteggi in centesimi su Vinous, meno influenti di quelli di Wine Advocate, ma comunque influenti. Ma sto divagando a bestia. Come sempre, la seconda volta che accade un fatto è meno rilevante della prima: il 100 a Sassicaia 2016 ha cambiato le sorti di quell’uscita, diventata ricercatissima e iper speculativa, ma non quelle del vino italiano né di Sassicaia stesso, che era già un’icona e difficilmente poteva diventare più rilevante di quanto già fosse, soprattutto in un mondo dove il gusto stava cambiando, e i consumatori under50 si stavano decisamente spostando da Bordeaux alla Borgogna preferendo l’eleganza alla concentrazione e facendo propria la prima regola del Manifesto di Terry Theise: la bellezza è più importante dell’impatto.
Possiamo dire che accadrà lo stesso con la 2021, da poche settimane in commercio: il 100/100 ha avuto un forte impatto comunicativo e speculativo (mentre sto scrivendo, il primo prezzo in Italia si aggira sui 330 euro contro i 260 dell’annata precedente, ossia il 27% in più che non è pochissimo), ma Sassicaia rimarrà Sassicaia (ossia il brand più famoso del vino italiano, ma con un pubblico tendenzialmente over50) e il vino italiano sarà esattamente lo stesso di prima.
Ha fatto un po’ di casino un articolo recente pubblicato su Intravino – testata su cui io stesso ho scritto tra il 2011 e il 2014, e che al netto delle inevitabili diversità di opinione tra me e la sua redazione rimane un punto di riferimento per la discussione intorno al vino in Italia – il cui contenuto è già riassunto dal titolo: la tesi che Sassicaia 2021 sia uno dei migliori di sempre. Ossia, essenzialmente, quello che ha detto anche The Wine Advocate.
Nonostante il contenuto non appaia, almeno ai miei occhi, foriero di chissà quali controversie, l’autore dell’articolo, Daniel Barbagallo, si è poi lamentato sui social delle reazioni suscitate, stupendosi di come Sassicaia risulti essere un vino “profondamente divisivo e a tratti odiato, come se odiarlo fosse una sorta di patente da intenditore vero che non beve roba commerciale che è tutto marketing”, il tutto nonostante sia “comunque una bandiera dell’Italia nel mondo”, finendo quindi per lamentarsi di constatare “questa anti italianità quanto la bandiera sventola così alta”.
Ok, qui di carne al fuoco ce n’è tanta, e avendo bevuto tutte le annate di Sassicaia messe in commercio con l’eccezione di 1974 e 1984 mi sento in grado di dare un contributo alla discussione.
Parliamo quindi di italianità, di brand, dei commenti pauperisti, del fatto che Sassicaia sia un vino divisivo o addirittura odiato, del mio rapporto passato, presente e futuro con Sassicaia e di quello che c’è dentro la bottiglia, con una umile proposta.
Per quanto riguarda le polemiche sull’anti italianità, mi paiono piuttosto sterili a meno che non provengano da rappresentanti del nostro Governo, in particolare di quello in carica, nel qual caso la retorica nazionalista sarebbe pienamente comprensibile e centrata. Ma qui non sta parlando Urso né Lollobrigida, e mi ritengo una persona che non si fa influenzare né dallo sciovinismo, né dall’esterofilia. Per la cronaca, la mia cantina è numericamente divisa in parti più o meno uguali tra Italia e resto del mondo, con una rappresentanza più nutrita di vini rossi nazionali e, al contrario, bollicine francesi e bianchi francesi e tedeschi.
La politica farebbe bene ad elogiare quello che gli Incisa fanno, più che per l’agricoltura italiana, per il comparto del lusso; ma a me importa il giusto. Non bevo un vino perché nato nella stessa terra che ha dato i natali a Enea, Romolo, Giulio Cesare, Mazzini e Garibaldi, né lo schifo per le stesse motivazioni. Oltretutto, pochi sono i simboli dell’italianità nel mondo a non essere divisivi: forse solo la Ferrari (che ormai è italiana in piccola parte) e la Nazionale di calcio. Armani, forse. Gucci (non più italiana da tempo) è divisiva. Prada è divisiva. Nutella è divisiva. Barilla è divisiva. Massimo Bottura è divisivo. I Måneskin sono divisivi. Pure Sinner è riuscito ad essere divisivo! E non iniziamo nemmeno a parlare di quanto sia stato divisivo Berlusconi.
Il brand Sassicaia, comunque, è un grande brand e l’annata 2021 una consacrazione, quanto l’ultima collezione di Prada e sicuramente più di quella di Gucci. Forse sarebbe bello vederlo più presente nello star system, in film come Challengers che sono una collezione di product placement di brand di successo, o nei testi dei cantanti e rapper più seguiti. Oppure possiamo sentenziare che non ce ne frega una mazza, che si stava meglio quando il mondo del vino e quello della moda non erano dominati dalla finanza, che ci interessa solo il contenuto della bottiglia.
Sui commenti pauperisti (a Roma direbbero “poraccisti”), lo sappiamo che se parli di un bene di lusso a un pubblico indistinto il commento pauperista devi metterlo in preventivo. Magari non la shitstorm, a meno che tu non abbia pubblicato un video in cui carichi una Mercedes classe G con un elicottero da trasporto e la lanci nel vuoto.
Che Sassicaia in sé, come vino, sia divisivo, è qualcosa di cui stupirsi quanto della temperatura dell’acqua che esce dalla manopola rossa, a patto di lasciarla scorrere per qualche secondo.
Chi se ne stupisce, probabilmente ignora del tutto quanto è successo nel mondo del vino negli ultimi venticinque anni, con l’ascesa, gli eccessi e la normalizzazione del vino naturale, ovviamente contrapposto al vino convenzionale che diventa inevitabilmente “il nemico”. Che per partito preso qualcuno non voglia bere Sassicaia perché frutto di agronomia ed enologia convenzionali (ormai anche industriali, viste le quantità), è inevitabile. Soprattutto se parliamo di giovani, di “nativi naturali”: del resto le persone sotto i 30-35 anni tendono ad avere gusti e preferenze differenti, anzi totalmente all’opposto, rispetto ai propri genitori, che si tratti di vino, automobili, abbigliamento, vacanze, cola (storico lo slogan Pepsi “non vuoi bere la stessa cola dei tuoi genitori) e quant’altro. Scagliarsi contro la categoria opposta, anche in modalità persone furibonde, è la natura umana.
Se la gente vuole vini non interventisti e verticali, o addirittura solo vini radicalmente naturali, Sassicaia non è solo un vino interventista e orizzontale: è il simbolo di tutto quello che sta sul cazzo a chi vuole solo vini radicalmente naturali. E continuerebbe ad esserlo anche se Tenuta San Guido passasse tutte le vigne in biodinamica e decidesse di fare fermentazioni spontanee: il brand, un brand potentissimo, è cementato nella testa della gente, e ci vorrebbero decenni per far mutare la percezione. Guardate Cristal di Roederer: dall’annata 2012, è prodotto per il 100% con uve da vigne condotte in biodinamica, eppure nella testa delle persone è e rimane lo Champagne da discoteca, anche se rimane una delle migliori cuvée de prestige in circolazione e si comporta benissimo confrontato con altri grandi Champagne considerati “più seriosi” o “più da intenditori”.
Ci sta anche che, oggi, qualcuno trovi i vini come Sassicaia noiosi, in quanto frutto di ricetta enologica più che dell’espressione dell’uva in un dato luogo. È la sensibilità che è cambiata, e mica succede solo nel vino. Provate a rivedervi film come Tropic Thunder o, peggio mi sento, Scuola di polizia.
Personalmente, ricordo alla perfezione l’esperienza della mia prima bottiglia di Sassicaia. Annata 1996, credo una cifra intorno a 70.000 lire. Un botto di soldi, per un liceale. Ovviamente lo trovai grandioso, un mito che potevo finalmente toccare con mano (e bocca, soprattutto). In gioventù, è un vino che ho sempre bevuto, anche andando a cercare annate mature; ricordo che la 1997, annata molto calda che in quasi tutta Italia ha prodotto vini oggi defunti o quantomeno ampiamente sul viale del tramonto, fu strombazzata ai quattro venti come annata del secolo. Una questione di marketing, per quanto riguarda quei toscani che uscivano proprio nell’anno 2000. Il successo dell’operazione fu discreto, al netto di abomini inenarrabili come lo Schidione di Jacopo Biondi Santi con l’etichetta d’oro massiccio, una bottiglia che oggi si è rivalutata solo perché l’oro sta a 70 euro al grammo contro gli 8 del 2000 (ovviamente è una battuta: usciva a un milione e mezzo di lire, oggi per 500 euro te lo tirano dietro e consiglio vivamente di scansarsi).
La 1997, io, non l’ho mai amata. Ho sempre preferito la vibrante energia della 1996 o la potenza perfettamente controllata della 1998, che per me rappresenta una vetta che questo vino non ha più toccato, né con la 2016 né con la 2021. E ci sono annate del passato per me superiori.
Le migliori cinque annate di Sassicaia, secondo me
1988 – Per me questo è il capolavoro assoluto, uno dei pochissimi vini italiani che possono guardare in faccia i maestri della riva sinistra di Bordeaux in annate leggendarie come 1961, 1982 e 1986. Concentrato ma vibrante, pieno di frutta e al tempo stesso di enorme complessità, non cede di un millimetro in bocca, perfettamente coeso, preciso, fine, interminabile. Ancora con parecchi anni davanti. Questo è un vino con un’anima, e lo dico dall’alto di un malcelato tendere verso il vino naturale.
1977 – Annata grande in Toscana, per il più toscano dei Sassicaia. Se il 1988 è un bordolese sotto mentite spoglie, il 1977 è la perfetta crasi tra Bolgheri e St. Julien. Il 1988 è Arthur Ashe, che in un mondo del tennis che era solo bianco vestiva come un bianco, si muoveva come un bianco, parlava come un bianco; il 1977 è Serena Williams. Splendidamente terziarizzato, ma ancora con un frutto luminoso e una struttura alleggerita, ma mai cedevole.
1998 – La migliore espressione di un decennio che ha dato, per quanto mi riguarda, gli ultimi Sassicaia di livello assoluto. Esplosivo, energico, materico ma al tempo stesso di grande precisione, tutta questa materia viene gestita in modo encomiabile e armonico. Estremamente stratificato e ancora giovane. Tra queste cinque annate, quella che ha più senso comprare ora e tenere in cantina, a patto di conoscerne la conservazione pregressa.
1985 – Questo è il più leggendario di tutti. È sempre costato un botto, e mi ci sono sempre avvicinato con una certa riverenza, trattenendo il fiato all’apertura quando la bottiglia era la mia. È una grande versione, davvero complessa, strutturata ed elegante, ma per me ricade appena meno preciso e appena meno dinamico rispetto alla 1988, e complessivamente meno emozionante degli altri due che faccio precedere quest’annata. Da sottolineare una certa variabilità da bottiglia a bottiglia; considerando che per motivi anagrafici ho potuto berlo solo da già maturo, pur prestando sempre attenzione a come una bottiglia viene conservata, mi riservo il dubbio di non avere mai trovato la bottiglia veramente giusta, soprattutto considerando che l’ho bevuto, se la memoria non mi inganna, quattro volte, non cinquanta.
1996 – Ha un profilo più scuro rispetto ad altre annate, quella che più gli si avvicina è la 1998. Complesso, speziato, minerale, fragrante e ben stratificato, molto energico e giovanile anche in assaggi recenti. È sempre stata l’annata che si comprava a meno di altre, ma performava di più.
E due parole sulla 1968 – La prima annata prodotta. Bevuta solo due volte, ed entrambe si trattava di un vino chiaramente stanco, sul viale del tramonto. Degustatori più anziani di me, e certamente affidabili, mi raccontano come negli anni Ottanta questo fosse un vino straordinario, paragonabile nel suo picco al picco della 1985. Credo loro, ma mi manca ahimè la prova pratica, e devo sottolineare come – al netto del fatto che questo è stato il primo vino commercializzato dall’azienda, e sicuramente c’erano alcune cose ancora da perfezionare – i grandi Bordeaux 1961 siano tuttora vini formidabili, l’unico Sassicaia messo in commercio nello stesso decennio, no.
Fin qui, ho parlato essenzialmente del passato. Nella seconda metà degli anni Dieci, mi ero già disamorato di questo vino, soprattutto delle sue versioni più recenti, che assaggiavo giusto per rimanere aggiornato, mentre non mi è mai dispiaciuto ritornare a bere le vecchie annate. A un certo punto, bisognoso di fare cassa, ho dato un grosso colpo alla mia cantina personale, diciamo dimezzandola: i miei Sassicaia, una venticinquina di annate tra la 1975 e la 2008, sono finiti all’estero in cambio di un consistente bonifico. Oggi ne avrò un paio di bottiglie che sono finite lì per caso.
Un po’ come Solaia, di cui conservo una sola annata, la strepitosa 1994 (il vino che fa passare tutte le malattie da raffreddamento), o di Tignanello, di cui il poco che ho tenuto è anni Ottanta, quando ci trovavi dentro la Toscana. Ma in quei frangenti, la mia Bolgheri e la mia Bordeaux sono state pressoché obliterate.
Bordeaux dopo il 2000 mi annoia profondamente, e preferisco gli anni Ottanta agli anni Novanta. Sono dieci anni che non vado nemmeno più ai Primeurs. Mi annoiano anche i 2005 e i 2010, figuriamoci le annate meno riuscite. So dove trovare Latour 1990 pagandolo quello che mi fanno pagare la 2017, e non riesco a trovare alcun motivo per bere la seconda.
Quello che c’è nella bottiglia, senza parlare più di brand (perché parlando di brand si può solo dire chapeau, e sì, sto citando Cassano), è un ottimo prodotto convenzionale, che non mi dà nemmeno una frazione delle emozioni di vent’anni fa, perché è cambiato lui e perché sono cambiato io. È un vino che comprerei per mettermi in cantina? No. È un vino che tendenzialmente scelgo di bere in carta? No. È un vino che rappresenta i valori che cerco di portare avanti nel mondo del vino? No. È un vino del cazzo? No. È comunque il miglior vino toscano? No. Il miglior taglio bordolese toscano? Beh, di questo se ne può parlare!
Continuo a bere alcune cose di Bolgheri e della costa. A Bolgheri, ho sempre amato i vini de Le Macchiole (i miei vecchi Paleo sono l’unica verticale bolgherese che non ho dato via), apprezzato Fabio Motta ma, soprattutto, I Luoghi e Mulini di Segalari che sono oggi a mio parere le realtà che meglio interpretano il territorio. E poi ci sono quelli che chiamo “i Sassicaia del Terzo Millennio”, da vigne in altre località sulla costa, taglio bordolese o Cabernet Franc in purezza: Caiarossa (il più bordolese di tutti), Duemani, Il Ladro (La Cocombola, Lucca) e Kappa o Essenza di Fattoria Kappa. Al netto che non sono usciti tutti con i 2021, sarebbe carino aprirli tutti insieme con il Sassicaia da 100 punti, eventualmente accompagnati da altri dei soliti noti (Ornellaia, Grattamacco, Guado al Tasso, Dedicato a Walter, Le Gonnare). Magari vince comunque il Sassicaia, ma sarebbe interessante vedere quanto distante, e in che direzione, gli arrivino gli altri, reperibili a prezzi chiaramente più contenuti.
Poi ritorniamo presto a parlare di Borgogna, eh.