Ancora troppo presto
Per organizzare il proprio sgargiante declino,
Ma non abbastanza da non averne un’idea.
Massimo Volume
Non ho più vent’anni. E nemmeno trenta. Ne ho quarantadue, ma dato che ho iniziato ad interessarmi al vino quando ne avevo quindici a volte mi sento addosso quelli di mio padre, che sono più di settanta. Detesto riconoscerlo e mi dà un fastidio estremo scriverlo, ma sono un signore di mezza età. Probabilmente riesco a capire i settantenni meglio degli adolescenti, anche se seguo pagine di memi dank, so cos’è un pandoro miope, ho letto Berserk, giocato a Disco Elysium e visto tutto Attack on Titan. Non mi preoccupo granché del colore dei miei capelli, anche se ne ho qualcuno bianco, ma piuttosto di avere iniziato a perderli. Ho qualche ruga, ma credo non mi abbia detto così male, considerando che le persone che non conoscono la mia età mi attribuiscono qualche anno in meno. Dal punto di vista dell’energia no, non sono più il giaguaro di una volta. Mi riesce difficile tirare tardi la sera, e se lo faccio il conto che mi viene presentato la mattina successiva è un salasso. Il problema, insomma, sono i tempi di recupero. Il mio olfatto e il mio palato rimangono acuti, ma le giornate da 120 assaggi mi appaiono più faticose di un tempo.
Con l’età, però, in qualche cosa sono migliorato: sono diventato meno impulsivo, ho sviluppato una soglia di tolleranza molto elevata (un utile meccanismo di autoconservazione, dato che invece continuo ad avere la capacità di gestione della rabbia di Pingu), ascolto di più il mio prossimo (a patto che non mi parli mentre sembro sveglio ma in realtà sto ancora dormendo e il cervello rettile gestisce il mio corpo in modalità provvisoria). Facendo mia l’immortale massima di Dan Peterson secondo cui non fare una cosa stupida è come fare una cosa intelligente, ho imparato a fare un sacco di cose intelligenti.
Anche i miei coetanei stanno invecchiando. Generalmente più di me, anche perché hanno più o meno tutti dei figli e non mi serve averne di miei per rendermi conto che sia un impegno ben più pesante e responsabilizzante di qualsiasi mansione di lavoro. Molti fra loro sono diventati i loro genitori, altri sono diventati il boomer dei meme, senza i vantaggi dell’essere appartenuti alla generazione più fortunata che si ricordi a memoria d’uomo, vissuta quando per avere successo era sufficiente studiare e stare lontani dalle tentazioni del terrorismo e dell’eroina.
Di una persona che invecchia con grazia si dice che invecchi come un buon vino. Ma cosa influenza la capacità di un vino di invecchiare, quali vini sono adatti all’invecchiamento, e cosa significa bere vini maturi? Sono forse un po’ troppe domande per un solo numero di questa newsletter, forse abbastanza da poterci scrivere un libro sopra, ma vediamo di dare qualche risposta in breve.
I conservanti nel vino sono, in ordine di importanza: zucchero, solfiti, tannino, acidi e alcool.
Quindi i vini dolci possono invecchiare più dei vini secchi, i vini con molti solfiti invecchiano più a lungo (ecco perché tanti vini degli anni Ottanta e Novanta hanno “magicamente” superato lo scoglio dei decenni, e possono riservare piacevoli sorprese), i vini rossi invecchiano meglio dei vini bianchi.
L’ordine dei fattori, a parte i primi due, è discutibile, in fin dei conti sono tutte concause. Certo, un buon riesling Auslese tedesco del 1975, con quell’acidità, quel residuo zuccherino e la quantità di solfiti che si usava utilizzare all’epoca era inevitabile che arrivasse fino a oggi ancora in piedi.
Ma quelle appena enunciate non sono regole assolute. Anzi, la maggior parte dei vini non è in grado di invecchiare positivamente per più di una manciata di anni.
Il principio fondamentale da ricordare è quello della gerarchia dei fattori, ossia:
MANICO → VIGNA → ANNATA → DENOMINAZIONE → VITIGNO
I vini di un grande produttore invecchieranno sempre meglio di quelli di un produttore mediocre.
Le vigne più vocate generano vini più portati all’invecchiamento.
Le annate migliori danno vini ben più capaci di invecchiare.
Alcune denominazioni sono meglio attrezzate a invecchiare.
Per quanto detto più sopra, alcuni vitigni sono meglio portati di altri a invecchiare.
Non so dove scriverlo, per cui lo scrivo qui: la capacità di un vino di invecchiare è, o dovrebbe essere, un fattore determinante nello stabilirne il valore economico. I vini cari per antonomasia, i grandi cru di Bordeaux, nelle migliori annate sono teoricamente eterni, come posso testimoniare dalle aperture dei 1961 e dei 1945, e come mi viene testimoniato riguardo i 1928, i 1923, i 1900, i 1899 e i 1870 bevuti da persone più anziane e più facoltose di me. La Borgogna invecchia mediamente con meno grazia, sicuramente con meno grazia del nebbiolo, ma nei casi migliori è comunque in grado di sfidare i decenni. Diffido dei produttori nuovi che raggiungono quotazioni esorbitanti, perché non sappiamo come invecchieranno i loro vini. Lo stesso dicasi per intere denominazioni o zone vinicole di cui nessuno ha assaggiato un grande vino con almeno venti o trent’anni sulle spalle, perché all’epoca in quelle zone non si producevano vini di qualità con velleità di invecchiamento. Stiamo testando adesso l’Etna -i primi vini di qualità risalgono alla seconda metà degli anni Novanta- e il giudizio rimane sospeso.
Tornando un attimo a parlare di nebbiolo: un tempo, il Barolo era fatto per essere bevuto dopo vent’anni. Nel mentre, si bevevano il dolcetto, la barbera, la freisa e il nebbiolo… e il Barolo già maturo. Oggi nessuno, nemmeno il più oltranzista dei tradizionalisti, pretende che il suo Barolo si beva dopo vent’anni, eppure le quotazioni del più nobile dei vini italiani non sono mai state così alte.
La scienza dell’invecchiamento, però, non è una scienza esatta. Mille cose possono andare storte mentre un vino riposa all’interno di una bottiglia. Tralasciando la suprema verità che afferma come il peggior nemico di un lungo e proficuo invecchiamento del vino sia la sete, i fattori sono numerosi. Il tappo può non solo sviluppare fetidi sentori di tricloroanisolo, ma può non tenere, risultando permeabile all’aria e causando una rapida e catastrofica ossidazione del prezioso liquido. Possono svilupparsi muffe che incidono negativamente sul vino. È possibile che un vino fermo rifermenti, e non accade necessariamente solo nei vini dolci perché anche i vini secchi contengono un pochino di zucchero: questo causa una lieve o non così lieve effervescenza (e qui, specie se la rifermentazione è appena percettibile, il vino può avere comunque qualcosa da dire), e sovente una parziale espulsione del tappo dalla sua sede (qui, ovviamente, resta solo il lavandino). Sbalzi di temperatura possono rovinare il tappo e il vino. Un’umidità insufficiente può seccare il tappo. La luce può danneggiare il vino, soprattutto se la bottiglia non è scura (si parla infatti di gout de lumière, gusto di luce).
Questo è il ponderabile… poi c’è l’imponderabile! Ogni bottiglia vecchia è un happening, e la capacità di invecchiare di un vino si determina in base a come la migliore bottiglia di quel vino mai aperta sia in grado di invecchiare. È un esercizio pericoloso, è un gioco duro a cui generalmente sono i duri, o meglio i degustatori con molta esperienza, a giocare. C’è tutta un’aura di sacralità, quasi mistica, esoterica, intorno all’apertura di una bottiglia di venti, trenta o più anni. Quelli che bevono “vini scaduti” si guardano tra loro con un certo spirito cameratesco, come indomiti esploratori antartici di un secolo fa, sono una setta non costituita, un club esclusivo, custodi di segreti che non necessariamente hanno piacere a condividere. E ci sono dei motivi, per cui aprire vini maturi sia una cosa così speciale.
Intanto, è raro poter disporre di determinate bottiglie. I posti migliori dove cercare sono i grandi e grandissimi ristoranti, ma il conto sarà inevitabilmente salato. Chi possiede certe bottiglie ed è disponibile ad aprirle è una risorsa preziosa.
Poi, appunto, più passa il tempo, più cose possono andare storte. Ogni bottiglia chiusa, finché rimane tale, è una bottiglia di Schrödinger, contemporaneamente viva e morta, e, in assenza di evidenti difetti, le viene riconosciuto il valore commerciale corrispondente alle più rosee aspettative. Essere disposti ad accettare di vedere tale valore crollare a zero, unito al disappunto per il non possedere più una bottiglia potenzialmente associabile a un’esperienza memorabile, richiede forza di volontà e un minimo di sprezzo del pericolo.
Poi, naturalmente, bisogna sapere cosa aspettarsi. Non è solo un discorso di ossidazione: ad esempio, con il passare dei decenni, gli Champagne assomigliano sempre meno a uno Champagne appena sboccato e sempre più a un vino fermo di Borgogna. Possono fare o non fare “pschitt” (il termine è di François Audouze, il più grande bevitore di vini antichi al mondo), ma certamente richiedono un ascolto più attento rispetto ad altre tipologie.
Insomma, per aprire una bottiglia matura devi possederla e averla conservata a lungo, trovare qualcuno in possesso di tali requisiti e disposto a condividerla, oppure spendere cifre importanti. L’apertura -se non avviene al ristorante- è un biglietto di sola andata per l’ignoto, il risultato è assolutamente variabile e può non coincidere alle aspettative.
Ma il payoff di tutto ciò? Cosa c’è, usciti dalla macchina del tempo?
Al di là della suggestione di aprire una bottiglia magari più vecchia di se stessi, che potrebbe avere visto pezzi di storia leggendari, una o due guerre mondiali o altri eventi rilevanti, magari figlia di eventi straordinari, la complessità di un vino vecchio di decenni e perfettamente conservato è qualcosa di magico che una sequela di descrittori, ancorché lunga e dettagliata, difficilmente può restituire.
Il frutto della gioventù diventa meno vibrante, a volte trasfigura in sue varianti (dall’infornato al confit passando per l’essiccato) e lascia spazio a infinite suggestioni, di spezie, di terra, animali, balsamiche, resinose, minerali e chi più ne ha più ne metta. La quantità di cose differenti che si sentono nel bicchiere e in bocca si moltiplica, diventa un ventaglio di cui non si riconoscono più le stecche, un viaggio in un luogo lontano, vagamente familiare o forse no.
I vini maturi sono un happening anche per la loro evoluzione nel bicchiere, totalmente imprevedibile: alcuni danno tutto in una manciata di minuti poi iniziano a spegnersi, come un genio della lampada, pardon, della bottiglia, che appena liberato crede di essere ancora un giovincello e si mette a danzare come un derviscio, per poi accorgersi della sopraggiunta età. Altri sono come paguri, che con estrema timidezza escono dal loro guscio, o come testuggini che si accorgono che il recinto che le imprigionava è ora aperto, e hanno a disposizione, anche se quasi non ci credono, un enorme prato che è la tavolozza del tempo su cui lentamente e progressivamente, in due, tre, sei o ventiquattro ore, disegnano il frutto della loro infinita sapienza, estasiando la platea.
Insomma, se pensi di poter prevedere un vino maturo, sbagli. Puoi sapere cosa potrebbe accadere, ma non cosa accadrà. E la posta in gioco è conoscere il tutto di quel vino, dargli il pieno valore non solo economico, ma anche culturale, artistico, emotivo. Vuol dire avere davvero assimilato quel vino, essere l’uomo con i soldi che è diventato uomo con esperienza, avere qualcosa da raccontare, avere i punti di riferimento verso l’alto che i trentenni di oggi, che probabilmente non hanno potuto bere Latour 1961, Romanée-Conti 1999, Monfortino 1961, Fiorano Semillon 1971 e Collina Rionda 1978, non possono avere.
Ecco perché, anche se riesco a emozionarmi bevendo vini giovani e nuovi, per me nessuna emozione può essere pari a quella di una bottiglia matura. Ed ecco perché, se non hai mai provato… dovresti.
Il primo e più grave errore dei “civili” (ossia dei non addetti ai lavori) rispetto al vino è di pensare che la denominazione o il vitigno siano la cosa più importante, e di conseguenza non dare il giusto valore al manico.
Il secondo errore più grave dei suddetti “civili” rispetto al vino è di berlo troppo giovane. Per necessità, per ignoranza o anche per mera contingenza. Un errore in cui spesso, per necessità o per mera contingenza, ricadiamo anche noi addetti ai lavori. Tutti, nessuno escluso. Per carità, meglio troppo presto che troppo tardi. Non c’è dubbio.
Ma.
Sogno di poter proporre, un giorno, un percorso di degustazione ragionata di vini maturi, una macchina del tempo enoica di cui farmi il Doctor Who, guidando esperti e meno esperti attraverso una medina di annate, avendole conosciute tutte o quasi, nelle principali regioni, dal 1945 – Année de la Victoire, recita l’etichetta di Mouton Rotschild 1945, uno dei più grandi vini di tutti i tempi – a oggi.
Questa newsletter nasce per parlare di vino. Parlare di vino ha molti aspetti: raccontare storie di vita vissuta, divulgare aspetti più o meno noti, aggiornare su assaggi recenti, commentare fatti di cronaca più o meno rilevanti intorno al vino, ma soprattutto rispondere alle domande di chi legge. Ne hai una da pormi? Scrivimi a domande@fabiocagnetti.com e ti risponderò.