Marta Valpiani: come la Romagna è tornata nel mondo del vino che conta
di Sangiovese, di Albana e di altre cose belle. Compresa una serata
L’Internet del 2007 in Italia era un posto abbastanza piccolo. Il social network che andava per la maggiore era Myspace, fortemente orientato sulla musica. Facebook era una cosa per pochi, visto che aveva appena smesso di essere riservato agli studenti americani. Il sistema di instant messaging che andava per la maggiore era MSN Messenger, e ICQ era ancora vivo e vegeto. mIRC era in calo, eravamo nel boom dei forum e dei blog. Tutti diventavano blogger di qualcosa, un po’ come oggi sono tutti influencer di qualcosa.
Nell’estate del 2007 in diverse nicchie divenne popolare Twitter (che continuerò a chiamare Twitter anche se adesso si chiama X), nato qualche mese prima. Veniva descritto come una piattaforma di blogging dove i messaggi non potevano superare i 140 caratteri, appena meno dei 160 degli SMS. Curiosamente, alcuni anni prima avevo lanciato -insieme a quello che oggi è noto come @disappunto (per pura coincidenza, romagnolo come l’azienda di cui parla questo post) ed è probabilmente la voce più brillante e fuori dal coro riguardo la musica in Italia- un blog di recensioni musicali di meno di 160 caratteri, il mitico semiscrivi (sì, il nome viene dal pezzo dei Perturbazione).
In pratica, avevo quasi inventato Twitter, la cosa mi avrebbe reso una delle persone più ricche del pianeta ma shit happens, e andarci vicino conta solo a bocce.
Il mio rapporto con le innovazioni tecnologiche è ondivago, ma in genere pieno di estremi: o sono tra i primi a lanciarmici, o li utilizzo quando ormai sono talmente di massa che non esserci è uno svantaggio. Fui tra i primi ad avere ICQ, nel 1997 (e avevo un numero bassissimo di cui andavo orgoglioso), mentre MSN Messenger fui costretto a installarlo nel 2003 quando ero Erasmus a Helsinki e tutti i miei compagni di corso usavano solo quello per comunicare. Sono stato “tra gli ultimi” sia su Facebook (2011) sia su Instagram (2016). Su Twitter, però, fui tra i primi della mia nicchia. Eravamo in pochi a parlare di vino, quindi iniziai a seguire un po’ tutti gli italiani che c’erano.
C’erano dei blogger, come Andrea Gori e Jacopo Cossater, e c’erano un po’ di vignaioli. I più attivi erano probabilmente Gianluca Morino (Cascina Garitina, Nizza), Luca Ferraro (Bele Casel, Asolo) e Elisa Mazzavillani (Marta Valpiani, Romagna), ed è così che arrivai a conoscere questa azienda, madre (Marta, appunto) e figlia, che iniziarono nel 1999 questa avventura a Castrocaro Terme, Romagna, nota a chi ha più di quarant’anni soprattutto per un festival musicale di artisti debuttanti.
La Romagna del vino, in quel momento, era una zona poderosamente depressa. Inevitabilmente, la regione evocava principalmente i vini in brick, a loro volta mediamente associati o ai senzatetto alcolizzati, o al massimo al vino usato dalle nostre madri per cucinare. L’Albana, storica DOC prima e DOCG poi, veniva utilizzata quasi esclusivamente per la produzione di vini dolci, di cui il più famoso era certamente lo Scacco Matto di Fattoria Zerbina, uno dei grandi vini da dessert degli anni Ottanta e Novanta.
C’era stato un unico episodio di vini davvero grandi nella zona, e parlo dei Ronchi di Castelluccio del compianto Maestro Gian Vittorio Baldi, dove il titolo è dovuto non alla sua perizia enologica -anche se sarebbe stato meritato- bensì alla sua prolifica carriera di regista e produttore cinematografico, che gli valse anche un Leone d’Oro nel 1960. Dalla fine degli anni Settanta, la sua azienda a Modigliana inanellò capolavori del sangiovese d’ogni tempo: Ronco dei Roseti, Ronco Casone, Ronco delle Ginestre, Ronco della Simia, nonché il miglior sauvignon blanc italiano, Ronco del Re. L’ultimo grande vino – dove per grande intendo che può guardare dritto negli occhi una riserva di Soldera- è Ronco della Simia 1990. Dopo di lui, il deserto.
Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo, si era sviluppata una scena interessante a Brisighella, capitanata da Paolo Francesconi e da Vigne dei Boschi di Paolo Babini. C’era qualche cane sciolto qua e là che cercava di fare bene (Costa Archi, Casetto dei Mandorli) ma fuori dal territorio li conoscevano solo pochi nerd. Le cose stavano per cambiare, ma torniamo a Elisa e Marta.
Elisa si è ritrovata giovanissima a dover fare scelte importanti, e ha dimostrato di avere tutte le qualità migliori dei vignaioli della sua generazione: umiltà, volontà di imparare e confrontarsi, capacità di comprendere il territorio e il mercato del vino, apertura mentale, capacità di imparare dai propri errori.
In italiano, un visionario è un pazzo; in inglese, visionary è chi ha una visione, chi riesce a guardare oltre la siepe.
Uno dei punti fondamentali della visione di Elisa, che ha fatto la differenza negli anni, è stato credere nell’Albana secco. Un’intuizione che nasce dalla conoscenza profonda di vini e territori diversi.
Molti vignaioli della generazione dei miei genitori, ossia letteralmente i boomer, quelli che oggi hanno dai sessant’anni in su, bevevano e bevono solo il loro vino, sia a casa sia al ristorante, e fondamentalmente pensano che gli altri vini facciano più o meno schifo… inclusi quelli del loro stesso territorio, e le rivalità e i campanili hanno causato una minore capacità dei vignaioli italiani, rispetto a quelli francesi, di fare sistema promuovendo un brand collettivo -che sia una denominazione, un comune o un’area geografica- con evidenti vantaggi per tutti.
Al contrario, i migliori vignaioli della mia generazione, come Marta Rinaldi, Luca Roagna, Riccardo Campinoti e appunto Elisa Mazzavillani, appartengono a una new wave assetata (è decisamente il verbo giusto) di confrontarsi, di conoscere, di assaggiare il vino degli altri, soprattutto i grandi vini, i punti di riferimento verso l’alto nonché quello che stanno facendo i propri pari in zone diverse.
L’idea di lavorare con l’Albana secco nasce proprio dalla passione di Elisa per il riesling tedesco, uva con cui ha visto delle continuità nel potenziale di acidità e struttura. E in effetti la sua Madonna dei Fiori ha molto dei grandi trocken della Rheingau e della Mosella, certo ha un po’ più di struttura ma la freschezza e la tensione non possono non ricordarli. Parimenti, i modelli stilistici del sangiovese vanno a ricercarsi non tanto a Montalcino, quanto nelle zone di più alta collina del Chianti, Lamole per la precisione, e idealmente in Borgogna. L’ideale di eleganza, di potenza senza peso, o con quanto meno peso possibile, è un faro che ha guidato la mano della vignaiola negli ultimi anni.
Quando iniziai a lavorare con Elisa, a marzo 2014, lo feci perché l’azienda era a mio avviso una delle migliori della sua zona, ma soprattutto perché ne vedevo il potenziale, anche se c’erano almeno tre criticità.
La prima era un problema di brand e di posizionamento: l’azienda era poco conosciuta a livello nazionale (e ancora meno a livello internazionale), ma proponeva nove vini diversi di cui sette rossi tutti a base Sangiovese. Ora, il problema qui è che il vignaiolo, che conosce ogni parcella, ogni singolo filare, ogni vasca o botte che ha in cantina, non è il suo cliente, che inevitabilmente non può che ritrovarsi confuso davanti a un muro di etichette. Fui chiaro con Elisa: “un’azienda della tua dimensione e della tua zona, se vuole avere successo sul mercato, può permettersi di uscire con quattro etichette: due bianchi e due rossi”.
Piano piano, ci arrivammo.
Il secondo problema era di natura puramente estetica: le etichette erano orribili. Non brutte, proprio orribili, dozzinali, da roba brutta dei peggiori scaffali dei peggiori supermercati. Il restyling che si imponeva è stato influenzato dal mio essere stato, all’epoca, totalmente in fissa con l’edizione delle Storie Naturali di Renard illustrata da Luigi Serafini (comunicazione di servizio: se qualcuno volesse disfarsi di una copia della prima edizione del 2009, quella in 660 copie numerate, sappia che pago bene). Alla fine si optò per una versione più elegante e classica, invece dello straripante surrealismo del genio romano, ma le schede d’erbario scelte, va detto, rendono queste etichette le più belle e riconoscibili della regione.
C’era poi un terzo problema, quello di un mondo del vino che stava uscendo dal convenzionale a velocità smodata e imponeva di ripensare il rapporto esseri umani/territorio.
Qui, i cambiamenti sono stati fatti lentamente, nel tempo, un passettino alla volta, per non pregiudicare reputazione e mercato ma soprattutto per evitare di fare cazzate, dato che la vinificazione non interventista ha un livello di difficoltà chiaramente molto alto.
Alla fine, però, possiamo dire che la transizione dell’azienda a quello che definisco Vino Contemporaneo è stata totale e perfettamente riuscita. Nessun prodotto di sintesi in vigna (oltre il biologico; ultimamente si è passati in biodinamica), nessun intervento invasivo in cantina, fermentazioni spontanee e nessun additivo o adiuvante utilizzato tranne (pochi) solfiti (oltre il biodinamico). Solo cemento per i bianchi, cemento e/o botti grandi di Stockinger per i rossi. Sughero solo su cru e selezioni di sangiovese, tappo a vite sul resto.
Abbiamo parlato solo di persone, ma il territorio fa tanto. Sui calanchi di Castrocaro, le escursioni termiche favoriscono lo sviluppo di sostanze aromatiche, mentre le argille, i calcari, la sabbia e il sasso spungone costituiscono suoli variegati che hanno dimostrato di essere tagliati per l’eleganza. Non credo si tratti di una zona meno vocata di quella Modigliana che ha dato capolavori eterni ormai più di trenta anni fa.
L’Albana Madonna dei Fiori è vino contemporaneo per antonomasia; tesissima, guidata da acidità vibrante e mineralità anch’essa da riesling renano, cambia le carte in tavola con una struttura più mediterranea, oltre che con un profilo che è più sale che fumo. Vertiginosamente uno dei grandi vini bianchi d’Italia, anno dopo anno.
Rio Pietra, un tempo Marta Valpiani Rosso, è dimostrazione che il sangiovese qui può rimanere umile senza dover essere necessariamente un vino del cazzo. Del resto, le vigne da cui proviene iniziano ad avere una ventina d’anni. Molto fresco, floreale e balsamico, è un’idea di sangiovese basata su eleganza e verticalità, rifuggendo qualsiasi pesantezza o eccesso di struttura.
Crete Azzurre, la selezione di sangiovese dalla vigna più vocata, è arrivato a fare 90 giorni di macerazione (che ormai in Langa nessuno o quasi si azzarda a fare più) e 18 mesi di botte grande, più altri sei di cemento e sei di bottiglia; praticamente quanto farebbe un Barbaresco. Ciò nonostante, è un monumento di eleganza, tra Lamole e Vougeot; l’annata 2016, aperta oggi, rappresenta un nuovo punto d’arrivo dopo tre decenni senza acuti di questo livello in Romagna. Vedremo dove arriverà la 2019, inevitabilmente giovane ma che promette benissimo.
E poi c’è il Fiore dei Calanchi, il progetto più folle. Una sola parcella, una sola botte, 666 bottiglie, diraspato acino per acino. Se Elisa fosse giapponese, costerebbe come una lavatrice.
E ora è giunto il momento di fare un annuncio: martedì 6 febbraio alle 21.30 Elisa sarà ospite da NON la solita vineria (via Orti 4, Milano).
Fondamentalmente per parlare dei suoi vini, ma tenendo presente che accanto a lei ci sarò io e l’idea è che si sviluppi un dialogo di ampio respiro e… vabbè, vi dico come è andata a finire l’ultima volta: era una cena seduta, eravamo anche in ritardo sulla tabella di marcia, avevo detto MI RACCOMANDO BREVE con le spiegazioni dei vini. Dopo il 45esimo secondo di spiegone sulla geologia della zona mi alzo e faccio mettere a tutto volume l’aria sulla quarta corda di Bach. Ossia, per chi non bazzica la classica, la sigla di Quark.
Ma siamo invecchiati un po’ tutti, e io sono rimasto uno stolido cazzone. Quindi prevedo che ci divertiremo.
NON dimenticate di prenotarvi QUI altrimenti mi sa che il posto lo trovi col coso, lì, come si chiama… no, non The Fork, ci siamo capiti.
Daje forte,
Fabio