Oggi non sarebbe dovuto uscire questo post. Ne sarebbe dovuto uscire un altro, che ho pronto dalla settimana scorsa, con delle considerazioni generali e non definitive sui Barolo 2020 e altri vini di recente o prossima uscita, dai 2023 in Mosella ai millesimi più recenti in Champagne.
Invece, mi ritrovo a scrivere il secondo post politico in una settimana alla luce di fatti recenti di cronaca. Nello specifico, le esternazioni di Oscar Farinetti all’inaugurazione della manifestazione Mare e Vitovska presso il Castello di Duino Aurisina.
Il fondatore di Eataly e di Fico ha detto, parlando di “quella figaggine che hanno certi che dicono di fare il vino naturale e ti guardano dicendo: voi usate merda, io sono più figo di te perché sono naturale”: “Naturale è un termine fascista, c’è bisogno di libertà”.
La prima cosa che mi viene da dire è che Farinetti capirà poco di diversi argomenti tecnici, ma capisce molto di marketing e soprattutto di branding. In particolare, qui vediamo applicate la tecnica della controversia, che è sempre buona, e la tecnica Branson, più discutibile.
Generare controversia è sempre un’ottima mossa di marketing, a patto che lo si faccia con criterio. Esprimere un’opinione polarizzante, che rinforzi i propri sostenitori e non ne alieni più di quanti ne conquisti, in genere paga. In questo caso, il pubblico infastidito dalla sparata farinettiana è quello dei convinti sostenitori del vino naturale e artigianale, ossia gente che Farinetti non può vederlo manco riflesso come la Gorgone. Chi è potenzialmente suscettibile a queste affermazioni è invece quella fetta di popolazione, immensamente più numerosa, poco o nulla consapevole rispetto all’argomento vino, esposta all’informazione (e alla disinformazione) dell’industria (di cui Farinetti è uno dei rappresentanti più in vista), e che magari ha avuto almeno una cattiva esperienza assaggiando un vino naturale difettoso.
La tecnica Branson, invece, è un corollario del “purché se ne parli” che pressappoco recita così: quando hai bisogno di un po’ di PR gratuite a un tanto al chilo, fai (o di’ davanti a tanti microfoni) una cazzata e tutti ricorderanno al pubblico che esisti. Non è granché, dato che nulla comunica del posizionamento del brand, ma per avere un po’ di ossigeno quando la tua azienda è boccheggiante, ammesso che sia un brand così grosso da essere sempre notiziabile, funzionicchia. In questo caso, poi, Farinetti riesce ad esprimere un’opinione su un argomento di cui non sarebbe titolato a parlare, non essendo certo un esperto di riferimento.
Vabbè, ci abbiamo girato intorno, ma ora analizziamo la frase: “il vino naturale è fascista”.
Innanzitutto, c’è della facile retorica sinistroide da mercato del pesce, in cui si sbandiera più o meno a casaccio lo spauracchio fascista per ottenere una facile reazione emotiva. Un po’ come Berlusconi che scendeva in campo contro il pericolo comunista, a Unione Sovietica già dissolta e senza che nessun soggetto politicamente rappresentativo avesse mai concretamente proposto di abolire la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Ma poi, che cazzo vuol dire “il vino naturale è fascista?”
Innanzitutto, è necessario mettersi d’accordo sulla definizione di fascista. Emilio Gentile, nel suo fondamentale saggio “Fascismo. Storia e interpretazione”, ci mostra che la cosa non è semplice né immediata: “dopo quasi novant'anni dalla sua comparsa nella storia e dopo oltre mezzo secolo dalla sua scomparsa il fascismo sembra essere ancora un oggetto alquanto misterioso”.
Per un attimo, mi metto a fare l’avvocato del diavolo, e a provare a rintracciare punti d’incontro tra il fascismo e il movimento del vino naturale. Entrambi danno una grande importanza a simboli e ritualità che permettono di dare un’accezione “mistica” a qualcosa che di per sé non ne ha, concepiscono la vita come un’esperienza pervasa dall’emotività e dal mito. Ma tutte le ideologie sono così. Hanno in un’idea non necessariamente mediata dalla logica il loro motore all’azione. Evidentemente, tuttavia, non è controverso dire che il movimento del vino naturale sia alimentato da una forte componente ideologica. Cercando ulteriori punti di contatto tra fascismo e vino naturale, se pensiamo soprattutto alla filosofia di Steiner, che essendo un uomo di inizio Novecento inevitabilmente era permeato anche di alcune idee che poi furono accolte anche dal nazismo, troviamo sia nel fascismo, sia nel movimento del vino naturale un movimento di rivolta spirituale contro una concezione materialistica e deterministica della società.
Ma quando parliamo di fascismo oggi, fondamentalmente, ci riferiamo a un sistema di governo che stabilisce una dittatura di destra estrema, tipicamente attraverso la commistione di Stato e leadership d’impresa attraverso il modello corporativo, assieme a una politica nazionalista generalmente belligerante, alla soppressione delle libertà individuali ed eventualmente alla persecuzione di alcune minoranze. La cosa divertente è che se c’è qualcosa di vicino al modello corporativo, ossia a una fusione di Stato e potere industriale, una commistione tra settore pubblico e privato che inibisce l’autotutela sia dell’impresa sia dei lavoratori, bisogna cercarla in qualcosa di distante dal vino naturale: nel sistema comunitario delle denominazioni, nei consorzi, negli enti certificatori dell’agricoltura biologica, che, pur prevedendo una conduzione della vigna poco interventista, è un protocollo deciso a Bruxelles e stilato in modo da essere applicabile dall’industria senza la minima difficoltà, anche perché lascia le mani estremamente libere in cantina, dove il vino fatto in vigna può essere manipolato anche in maniera pesante. Non a caso, Farinetti ama il bio, e al castello di Duino ha detto anche “Dovreste dichiarare tutto il Carso bio, anzi… dovremmo dichiarare tutta l’Italia bio! (…) già mi vedo a New York a parlarne in conferenza!”. Insomma, Farinetti è un corporativista che cerca di dare del corporativista agli altri, un bue che dice cornuto all’asino.
I “naturalisti”, invece, spesso si pongono al di fuori di denominazioni e consorzi, visti come parte del sistema cui si oppongono, e se si certificano biologici è perché qualche importatore glielo chiede, e lavorando in modo assai più restrittivo dell’agricoltura biologica a loro costa giusto il peso di sobbarcarsi un po’ di burocrazia.
In ogni caso, non voglio sopravvalutare Farinetti, che quando dice “fascista” intende, molto più vagamente “dittatoriale, autoritario, persecutorio”.
Ora, secondo i politologi le posizioni politiche si possono sommariamente descrivere in un quadrante con un asse economico (sinistra-destra) e un asse sociale (autoritarismo-libertarismo). Personalmente trovo che sarebbe necessario un terzo asse (atlantismo-sovranismo), ma lasciamo stare.
Per cui il fascismo è una corrente politica di destra autoritaria, anche se non tutta la destra autoritaria è fascista.
La cosa divertente è che non esiste nulla di più libertario del vino naturale, dato che il termine è probabilmente l’unico, nel mondo del vino, a cui non corrisponde un disciplinare né una certificazione, che è autodeterminato e non regolamentato dall’alto. Inoltre, i vignaioli naturali, come detto sopra, generalmente rifiutano ogni inquadramento e incasellamento, sono ribelli contro l’autorità, al limite si organizzano in piccoli gruppi autogestiti.
Quindi, se vogliamo definire il vino naturale, potremmo definirlo come anarchico, o quantomeno come fortemente libertario. Certamente non fascista, e a occhio piuttosto vicino all’opposto del fascismo.
Possiamo poi effettuare delle distinzioni fra i diversi tipi di vignaioli naturali, nessuno dei quali, con le sue azioni, in odore di fascismo. Ci sono quelli che fanno propri i valori della civiltà contadina, recepiscono istanze sociali, pensano più a lavorare in vigna e in cantina che a pavoneggiarsi in giro, lavorano tanto e parlano poco, sono consapevoli di essere agricoltori e artigiani, che il vino è alimento e cultura, sempre con un certo atteggiamento di rifiuto verso l’autorità. Costoro potremmo definirli libertari di sinistra o anarco-libertari. Poi c’è un modello di vignaiolo naturale che va per la maggiore negli ultimi tempi, che pensa a fare un prodotto modaiolo, magari acquistando uve in giro, e a venderlo al prezzo più alto possibile. Magari si tratta di un progetto che ha alle spalle fondi di investimento, e in genere si tratta di persone che prima che il vino naturale diventasse un buon affare facevano tutt’altro. Costoro agiscono di concerto con un oligopolio di imprenditori e distributori per mantenere alti l’hype e il prezzo dei loro (a volte artificialmente) introvabili vini. Sono consapevoli di essere imprenditori del settore del lusso. Questi sono libertari di destra. Ma nemmeno questi, che per me rappresentano uno dei lati deteriori del vino naturale, sono fascisti.
Semmai, si può certamente affermare che molti, troppi vignaioli naturali sono integralisti. Io stesso, quando nel 2019 ho scritto il mio Manifesto del Vino Contemporaneo, li ho definiti “talebani”, e per me rappresentano l’altro lato deteriore del vino naturale:
i talebani arrivano nel mondo del vino di oggi, senza che nessuno sapesse dove fossero prima, ai tempi di Porthos o prima ancora. Con un background che generalmente prevede lunghi anni (molti più di quelli di corso) in una di quelle facoltà che mi chiedo come facciano ad esistere ancora, ora che è stato abolito il servizio militare. Senza nessuna esperienza di degustazione dimostrabile, e quindi senza validi termini di paragone.
Arrivano e sentenziano che il vino “vero” è solo quello che dicono loro. Ossia quello senza nessuna aggiunta di niente, senza solfiti, controllo della temperatura o quant’altro. Adorano e ricercano difetti come l’acidità volatile, il ridotto, il “mitico” souris o sorcio che dir si voglia, l’acetaldeide e il brett, che considerano indubbio segno di genuinità. Sono aggressivi e offensivi verso tutto il resto del mondo del vino.
Quel mondo del vino che cercano di distruggere dall’interno.
Costoro sono una delle più gravi minacce possibili al mondo del vino, e il nome “talebani” evoca in modo efficace come siano pericolosi e da combattere.
Cercano di imporre un gusto del vino che non esiste, se non nelle loro teste, inconsapevoli che il vino deve essere gusto e piacere, o non ha senso di esistere. O forse sono semplicemente in malafede. Gli interessano solo l’ego o la soddisfazione personale.
Fortunatamente, dopo la pandemia e il marasma che ne è derivato questi soggetti si vedono sempre meno e il loro peso specifico si è ridotto. Qualcuno ha rivisto le sue vedute estreme, qualcuno si è dato (metaforicamente) all’ippica, qualcuno è proprio sparito dalla circolazione. In ogni caso, è necessario tenere alta la guardia.
Insomma, ricapitolando:
- Farinetti ha detto una cazzata, che non indigna che chi già lo detesta e potrebbe abbindolare qualcuno già scettico intorno al vino naturale;
- Il vino naturale non è “fascista”, è quanto di più libertario -per non dire anarchico- esista nel mondo agricolo;
- Semmai il vino naturale è ideologico, e il suo lato peggiore è costituito dagli integralisti, che se fossero più accorti potrebbero produrre vino naturale migliore contribuendo alla causa, invece di remare contro di essa.
Ah, quasi dimenticavo. Al Castello di Duino, Mr. Fico (no, non il primo ministro slovacco, sempre l’imprenditore fenomeno della Disney World italiana) è riuscito a prodursi in una sparata ancora peggiore, una per cui mi sarei aspettato che Soldati e Veronelli uscissero dalla tomba per prenderlo a calci a due a due finché non diventano dispari cantando Walking on Sunshine:
“piccolo è bello: è un concetto sostenuto dai fighetti che non capiscono niente del vino”
Sempre nel mio Manifesto del Vino Contemporaneo, partendo appunto dalle parole di Soldati e Veronelli, ho spiegato diffusamente perché il vino importante, interessante, di pregio e di valore per me è solo il vino artigianale, e perché l’artigianalità può esistere solo al di sotto di una certa dimensione aziendale.
Riguardo il paladino dell’industria che attacca “i fighetti che non capiscono niente del vino”, mi limiterò a ricordare come costui, lo scorso settembre, abbia definito il Barolo un vino dolce, che si abbina con tutto e deve essere bevuto freddo.
Bella pe tutti.
Ma prima di salutarci, una postilla sulla vicenda caporalato in vigna. Ne avevo parlato, apparentemente fuori tempo massimo, lunedì scorso, ma la cronaca ha mostrato che quando parliamo di queste piaghe sociali il “fuori tempo massimo” non esiste. Il buon giornalismo è quello dell’inchiesta del quotidiano La Repubblica in edicola oggi, che svela le terribili condizioni cui sono sottoposti alcuni lavoratori (immigrati, ovviamente) in prestigiose denominazioni piemontesi. Anche in Langa. Anche nella Docg Barolo.
Ammassati in condizioni igieniche precarie, costretti a turni di dieci ore al giorno senza mangiare, picchiati con spranghe di ferro se provano a protestare. L’inchiesta è stata pubblicata, correttamente, dopo che la questura di Cuneo e la procura di Asti hanno concluso l’operazione e i responsabili sono già stati sottoposti a misure cautelari. Fortunatamente mi pare che la questione stia esercitando una certa pressione sulle parti politiche, e il ministro Lollobrigida ha annunciato maggiori controlli e apparentemente - apriti cielo! - una riflessione e possibile revisione dell’attuale politica migratoria basata sul Decreto flussi, con i click day che abbiamo visto funzionare particolarmente male in agricoltura, soprattutto quella di qualità. Staremo a vedere. Nel frattempo, grazie per avermi seguito in questo lungo time-out politico, vediamo se riusciamo a riprendere un discorso più centrato intorno al vino o se la cronaca mi spingerà a ulteriori riflessioni di più ampio respiro.
Mi si consenta, in chiusura, una riflessione. Un malcostume tutto italiano è quello di addossare ai consumatori, al popolo, alle masse le colpe del marcio che sta sopra le loro teste. Parlando di caporalato, ho letto dai soliti fenomeni che la colpa sarebbe di chi vuole pagare poco i prodotti agricoli, dai pomodori all’olio. Provate a dirlo del Barolo e sarò io a venirvi a prendere a calci in culo cantando Walking on Sunshine.