Scrivo questo post a tre settimane dall’episodio che mi ha ispirato a scriverlo, un po’ per mancanza di tempo, un po’ perché è quando si inizia a non parlare più di qualcosa di importante e grave che è necessario un richiamo. Presto ricominciamo a parlare di vino bevuto, di Barolo e Borgogna, di verticali e di biodinamica, ma oggi no.
Il lavoro in vigna, già di per sé, è duro lavoro, come tutti i lavori dei campi. Ed è tanto più duro quanto più vicino ai valori della civiltà contadina, laddove tutte le operazioni più delicate vengano compiute a mano, magari semplicemente perché gli aiuti tecnologici teoricamente possibili sono fuori dalla portata della piccola azienda agricola.
A ciò si aggiunga il grande rischio che viene dall’avere una sola vendemmia l’anno ed essere esposti ad eventi catastrofici dovuti al clima e alle malattie, ancor più se si decide di lavorare in biologico o secondo protocolli agronomici più restrittivi dell’agricoltura biologica.
Per sua natura, il lavoro in vigna ha un enorme picco, inteso come ore-persona, in vendemmia rispetto ad ogni altro periodo dell’anno; è quindi caratterizzato a un forte ricorso al lavoro temporaneo e giornaliero.
Ed è qui che cominciano i problemi, problemi molto italiani, direbbe Stanis La Rochelle.
In Italia si parla di argomenti importanti, di problemi che toccano il nucleo stesso della società, solo quando c’è il fatto di cronaca. Il lavoro, in tutte le sue fattispecie (sicurezza, diritto, legalità), è uno di questi, e purtroppo, negli ultimi tempi, i fatti -generalmente tragici- di cronaca sono così tanti che se ne parla continuamente, e l’inaccettabile morte di Satnam Singh del 17 giugno scorso ci ha ricordato che la situazione del lavoro in agricoltura è particolarmente grave: il 30% di tutto il lavoro agricolo in Italia è irregolare, precisando comunque che la media europea è del 25% quindi il male è un male diffuso, fin troppo diffuso.
E “noi del vino” non possiamo girare la testa dall’altra parte dicendo che è un problema che riguarda solo l’ortofrutta, “i pomodori” nel sentire comune. Ce l’ha ben ricordato un articolo apparso il 22 giugno scorso sul quotidiano La Stampa, con un’intervista a un bracciante impiegato nelle vigne del Friuli.
BREVE PARENTESI GRAMMAR NAZI CHE MI COSTRINGE A FUMARE DELLE MARLBORO ROSSE IN COMPAGNIA DI UN GRANCHIO
Mi tocca leggere “qui, nei vitigni del Friuli” e mi incazzo più di quanto mi faccia incazzare la vicenda di Satnam Singh.
Chiunque conosca la lingua italiana, o in alternativa abbia frequentato anche solo i primi cinque minuti del più scrauso dei corsi di avvicinamento al vino (a proposito: ricordo a tutti che il 9 settembre parte il mio quarto Corso di Sopravvivenza Enoica, che invece è il mio tentativo di fare il corso breve più bello, intenso, utile e ben prezzato in circolazione – info a domande@fabiocagnetti.com ) conosce la differenza tra vigneto e vitigno.
VIGNETO = UN APPEZZAMENTO DI TERRA DOVE SI ALLEVA LA VITE
VITIGNO = VARIETÀ DI UVA (come le razze dei cani, per capirci).
Può permettersi di non saperlo qualcuno con la quinta elementare che fa un post da bar sport su Facebook scrivendo ha voce del verbo avere senz’acca. Non può permettersi di non saperlo chi scrive e chi corregge le bozze per un quotidiano nazionale, anche se si dovesse trattare di stagisti non pagati (mi risulta, tuttavia, che chi ha firmato l’articolo sia giornalista professionista).
FINE PARENTESI GRAMMAR NAZI CHE MI HA COSTRETTO A FUMARE DELLE MARLBORO ROSSE IN COMPAGNIA DI UN GRANCHIO
In ogni caso, portando dal particolare (ossia dalla singola vicenda personale) all’universale quanto non possiamo più ignorare, la situazione è di quelle di cui vergognarsi: i nuovi schiavi vengono ingannati, ricattati e umiliati, costretti a vivere in condizioni disumane e pagati una miseria. E no, questo non succede solo nella grande industria che produce milioni di bottiglie di bassa qualità a basso prezzo: è una facile scusa che non corrisponde al vero.
Perché accade tutto questo? I primi motivi che vengono in mente sono quelli ovvi: avidità, assenza di scrupoli, mentalità criminale, incapacità imprenditoriale (ossia il giustificarsi dicendo che è l’unico modo per far tornare i conti), controlli insufficienti.
Tutto vero, ma non è solo questo.
Il problema è anche un sistema di regole che a volte assomiglia a una tonnara che indirizza le aziende, per disperata mancanza di alternative, verso il lavoro irregolare. Non necessariamente le forme più becere di caporalato, ma comunque un violare la legge che a volte sembra istigato dalla legge stessa.
Una verità poco considerata: il lavoro in vendemmia non è lavoro qualificato solo se non vuoi che lo diventi. Soprattutto per le aziende che lavorano in biologico o con protocolli più restrittivi, per le quali la qualità delle uve che si portano in cantina è un fattore ancora più decisivo e non negoziabile né fattibile di correzioni se si vuole produrre un vino di qualità.
L’ideale, quindi, sarebbe poter ingaggiare ogni anno sempre gli stessi lavoratori per vendemmiare: una cosa praticamente impossibile, nell’Italia di oggi. La lotteria del click day imposta dal Decreto flussi non dà la minima garanzia di poter avere a disposizione la forza lavoro di cui si necessita, né dal punto di vista qualitativo, né da quello quantitativo: l’anno scorso mancavano 20.000 braccianti agricoli rispetto al necessario.
Mancavano ventimila braccianti agricoli, ma l’uva e la frutta non sono rimaste a marcire in pianta.
SECONDO VOI, COSA È SUCCESSO? E PERCHÉ PROPRIO IL RICORSO AL LAVORO IRREGOLARE COME ULTIMA SPIAGGIA?
In tutti i Paesi civili l’immigrazione è regolamentata, spesso in modo fin troppo draconiano. Eppure, in nessun Paese civile o suppostamente tale come il nostro diventa difficile per un’azienda poter disporre di manodopera qualificata. Questo Paese che si dice liberale finisce per mettere i bastoni tra le ruote delle aziende (salvo eventualmente poi sanzionarle in maniera più o meno casuale, più o meno selettiva), e per incentivare il lavoro irregolare e l’immigrazione clandestina. In altri settori finisce che gli imprenditori si ritrovano a dover spostare all’estero la produzione, esportando reddito e importando disoccupazione; in agricoltura, in genere, si va direttamente nelle braccia dell’illegalità.
Ovviamente tutto ciò è strumentale alle necessità demagogiche di chi non avendo contenuti politicamente superiori deve fare affidamento sull’allarme sociale e sui sentimenti più bassi della pancia del Paese per assicurarsi un ciclo quinquennale sugli scranni del potere. E non è una questione di casacca, di professarsi di destra o di sinistra: troppe persone hanno interessi connessi allo sfruttamento dell’immigrazione, per cui NESSUN Governo ha MAI avuto il minimo interesse a mettere mano alle politiche migratorie e regolamentarle in modo efficace e funzionale.
Se non è possibile assumere manodopera qualificata dall’estero, l’immigrazione clandestina creerà allarme sociale e questo continua a far comodo a qualcuno (e ribadisco, la critica è all’intero sistema, non specificatamente a chi si ritrova a governare in questo momento). Misure come il decreto flussi non servono né a scoraggiare l’immigrazione clandestina (è il contrario), né a salvaguardare la manodopera domestica (se ci fossero lavoratori in Italia disposti a fare certi lavori, non ci si sottoporrebbe ai costi e alla burocrazia necessaria per importarli dall’estero), né ad avere meno stranieri per strada, dannazione (gli stranieri per strada sono gli stessi, solo senza nessun prefiltraggio o controllo, ed essendo irregolari è molto più probabile che finiscano per delinquere).
A questo si aggiunga che ogni tanto, così per tenere a bada il malcontento, gli ispettori del lavoro si alzano e fanno 20.000 euro di multa a un’azienda familiare che ha accettato l’aiuto di quattro amici per vendemmiare. Per importanti, anzi fondamentali che siano i regolamenti e la sicurezza, in casi come questo, non così infrequenti, vengono a mancare contemporaneamente il buon senso e quello della misura.
Ah, oltre al danno c’è la beffa: una porzione non irrilevante di quei 20.000 stagionali che ci mancano sono italiani che vanno a vendemmiare in Francia, perché le condizioni di lavoro sono migliori, perché è più semplice che fare la stessa cosa in Italia e perché quando tornano in Italia si prendono pure l’indennità di rimpatrio.
Insomma, la situazione è grave, e pure seria. Quantomeno dall’anno scorso si è deciso di normare, sempre in modo burocraticamente e fiscalmente troppo gravoso, la vendemmia turistica, ma sempre meglio di un calcio nei coglioni.
Quasi dimenticavo: sono passati circa quattro anni da quando Valentina Passalacqua, titolare della maggiore azienda vinicola biodinamica italiana per estensione, fu accusata di caporalato, con titoloni rimbalzati ovunque, gogna mediatica e importatori che hanno improvvisamente cancellato ordini. Un anno dopo è stata assolta con formula piena, ma la cosa non ha fatto notizia. Bisogna incazzarsi, indignarsi, essere furibondi quando le cose assumono una piega inaccettabile (e i francesi in questo ci danno lezioni da due secoli senza che noi riusciamo a impararne qualcosa), ma bisogna anche stare attenti a quello che si dice.
Tutto qui. Ora ricominciamo a parlare di vino in senso stretto, che è meglio.
Grazie a Sabino Berardino e Domenico Pisanelli per l’aiuto nel reperire materiale fondamentale per la scrittura di questo post.