Ho due buone notizie per chi mi sta leggendo: sono sopravvissuto alle impressionanti mangiate della vigilia e di Natale, e la cosa non mi ha impedito di essere perfettamente in linea con la mia tabella di marcia che prevede per la giornata di oggi la pubblicazione della terza parte della classifica dei miei migliori 50 vini italiani del 2024.
Prima di passare in rassegna queste dieci posizioni, ricordo che le risposte alle domande frequenti le ho pubblicate nell’introduzione alla prima parte, mentre ripubblico LA NECESSARIA NOTA METODOLOGICA:
Non più di un vino per azienda; solo vini assaggiati in bottiglia per la prima volta durante il 2024; solo vini usciti durante il 2024; solo vini di cui non sia uscita un’annata successiva durante il 2024. I simboli dell’Euro (da uno a cinque) danno un’idea della fascia di prezzo.
Ma eccoci ripartire dalla posizione numero 30:
Massimo Bucciarelli, sublime interprete del territorio di Castellina in Chianti, ci ha lasciati quest’anno, ma non è per mero omaggio che ritroviamo uno dei suoi vini in questa classifica.
Il simbolo dell’azienda sono il Chianti Classico e la Riserva, e va detto come anche i vini più semplici, inclusi Langelo Bianco e il foglia tonda in rosa, siano sempre totalmente a fuoco e con un rapporto qualità/prezzo encomiabile. Questa rarità, però, appartenente a una tipologia che possiamo tranquillamente definire demodé, ha totalmente rapito la mia attenzione.
Giunge a noi pronto, dopo un interminabile affinamento nei caratelli. Ha tutti i crismi del grande vino dolce, cenni di ossidazione nobile, sconfinata complessità, acidità sferzante che ne mitiga la dolcezza e gli dona una verticalità che difficilmente questo genere di prodotti riesce a raggiungere. Infinito, non si dimentica.
Il territorio di Mamoiada, anno dopo anno, si candida a scalzare Chateauneuf-du-Pape come zona di massima elezione per la grenache (perché il cannonau è geneticamente la medesima uva), forte di un importante patrimonio di vigne vecchie su cui si è innestata una nuova generazione di vignaioli che è salita alla ribalta negli ultimi due decenni, nel solco tracciato dagli apripista Montisci e Sedilesu, i maestri. Ma appunto, gli allievi sono diventati bravissimi, e reperire i loro vini nel continente non è più un problema.
Questo cannonau viene dalle vigne più vecchie dell’azienda (tra i 70 e i 120 anni), ed effettua un anno di affinamento in tonneau. È indubbiamente giovane, ma già equilibrato, di notevole pulizia, con un gran frutto preciso, suadente, nitido, con una bella mineralità; molto ben condotto, pur nella sua grande ampiezza non perde mai il filo, in bocca ritorna una grande sapidità.
Un vino che mostra gli stilemi della new wave di Mamoiada, che non si accontenta di uscire con vini d’impatto, ma vuole sedere alla tavola del vino contemporaneo, dimostrando che da qui possono venire bottiglie gastronomiche e approcciabili, senza limitarsi al famoso “trovare l’equilibrio avendo troppo di tutto” né quindi indulgere in eccessi di sorta.
Uno dei più sensibili vignaioli italiani ha creato un altro piccolo miracolo, con questa etichetta buffa che pare una stella alpina quando siamo 1200 chilometri più a sud. Vigna di catarratto di 25 anni a livello del mare, pressatura diretta (eh sì, in Italia c’è ancora chi fa grandi vini bianchi, non solo arancioni) poi nove mesi in tonneau.
Un vino davvero strano, salmastro, agrumato, speziato, a tratti quasi piccante con ritorni di fumo e ancora tanto sale. Composto e tutt’altro che sussurrato, dominato dalla sapidità, pieno, lungo, stratificato e sempre teso, continua a contrappuntarsi e nel suo continuo stimolare finisce per essere uno di quei vini che sembra scrutino te con aria inquisitiva, come succede con un Trebbiano maturo di Valentini. Un vino con così tanta personalità da renderne la degustazione un’autentica esperienza, lasciando da parte paragoni con altre zone e altre uve.
Altra giovane azienda di Mamoiada, che però vedo già molto ben piazzata nelle tavole e nelle cantine che contano. Ho trovato l’intera linea dei 2022 di ottimo livello, finendo per preferire questo cru, dalla vigna più bassa.
Senza negare l’essenza mediterranea del cannonau, risulta fresco, fragrante, succoso, con un bel tannino, con un corpo più snello rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare ma comunque certamente non magro. Un’idea di Mamoiada incentrata sull’equilibrio, che risulta vincente.
Laura Brunelli si è trovata in mano un’annata ai limiti del memorabile e ha saputo interpretarla al meglio. Nulla da dire sul piano della definizione, certamente di grande intensità e potenza, già approcciabile, bel frutto maturo e mai surmaturo, molto complesso con richiami erbacei, floreali e terrosi; un profilo paradigmatico – magari appena più pronto rispetto alla “grande annata” storica – che in bocca trova già un suo equilibrio fra grande estrazione, grande acidità e grande tannino, già piuttosto risolto. Ottima gestione del legno che c’è ma non copre né infastidisce. Uno dei vini migliori a Montalcino in un millesimo in cui c’era l’imbarazzo della scelta.
Ancora Mamoiada, qui parliamo di una singola vigna del 1911 ad alberello basso, a 730 metri di altitudine. Macerazioni non troppo spinte, 18 mesi di tonneau, poi un breve passaggio in acciaio prima dell’imbottigliamento.
Bel fruttone carnoso, erbe officinali, macchia mediterranea, richiami ematici; profilo molto ben centrato, senza surmaturazioni, volatili in fuorigioco né sbavature. Sorso più guidato dall’energia cinetica che dalla mera estrazione, profondo, teso, rotondo il giusto ma mai statico, tannino sotto controllo, grande persistenza. Fra le cose migliori uscite fuori da Mamoiada negli ultimi anni.
Un approdo sicuro in Valpolicella, tanta pazienza e otto anni in botte grande per uno degli ultimi Amarone Riserva a uscire sul mercato; il risultato è un vino che può certamente invecchiare, ma si può anche bere senza troppi patemi. Degno di nota anche il prezzo, inferiore a quello degli altri top della denominazione.
La materia è importante, ma è un Amarone all’opposto del ruffiano, se non addirittura verso l’austero, con la complessità che ci aspetteremmo, in cui affiorano note speziate, erbacee, affumicate e anche più esoteriche (radici, corteccia, tartufo). C’è la potenza che ci si attende, ma la beva non è mai faticosa, i tannini integrati, l’acidità più che sufficiente a sorreggere il ragguardevole estratto ed assicurare un proficuo invecchiamento. Molto classico, fuori dalle mode.
L’azienda più storicamente rappresentativa della Valtellina si è fatta attendere per mettere sul mercato quello che è forse il suo vino più emblematico e amato, ma possiamo dire che l’attesa, comprensiva di tre anni in botte da 50Hl e altri tre anni in bottiglia, è stata ripagata.
Lo stile è quello classico del nebbiolo da lunghissima macerazione, molto fine e austero, una bella ciliegia chiara, erbe officinali, spezie, cuoio, note balsamiche. Un profilo già aperto, preludio a una bevuta seriosa, fresca, con un tannino che suggerisce di aspettare ancora un po’, ma non necessariamente a lungo, per trarne il massimo godimento.
Per tutti gli amanti del nebbiolo più classico, non solo della chiavennasca di Valtellina.
Ancora Valtellina, ma azienda molto più giovane, macerazioni più brevi (parliamo comunque di un mese!), due anni in tonneau. Uno stile più moderno quindi, per questi ragazzi che hanno già da tempo mostrato di essere bravissimi e della cui grandezza mi accorsi con l’annata 2006.
Naso già bello aperto, ampio, buona eleganza, frutti di bosco, bella speziatura, una rosa appassita che più nebbiolesca non si può; la bocca è composta, elegante, il vino risulta già bene integrato, succoso, esce la parte minerale, è già molto godibile ma ovviamente le prospettive di invecchiamento sono molto ampie. Per la compostezza, l’equilibrio, l’eleganza e la precisione, siamo probabilmente di fronte alla migliore versione di questo cru nella pur non lunghissima storia aziendale.
Dopo tanto parlare dei Barolo 2019, arriviamo – già nella parte alta della classifica – a parlare dei loro cugini, frutto di un millesimo non meno felice per gli amanti della tradizione del nebbiolo di Langa: i Barbaresco 2021. Si tratta anche in questo caso di un’annata per cui la cosa giusta da fare è fare scorta, secondo la tasca e il consumo, di tutti i produttori di riferimento, e da ormai più di un decennio questa azienda rientra nella categoria.
Dico spesso che questo è un Barbaresco per amanti della Borgogna, e infatti riesce a mantenere una leggiadra eleganza anche in un’annata austera come questa, in cui i tannini sono importanti e, a questo stadio, ancora aggressivi. Ma non possiamo non essere catturati da una parte dal profilo classico, floreale di questo vino, dall’altra dall’importanza e dalla profondità della sua materia, in divenire ma già mirabile sintesi di potenza e precisione.
Le parti quarta, quinta e le due classifiche bonus usciranno su questa newsletter quando avrò tempo.